LE ORIGINI DELLA RAZZA
Presentiamo una interessante ricerca della dott.ssa Maria Andreoli, che attraverso uno studio sulle origini della pastorizia ci aiuta a comprendere le origini del pastore maremmano abruzzese.
ORIGINI Intorno al 3000 a.C. un slancio culturale prendeva inizio nel Medio Oriente e anche l'allevamento delle pecore e quindi anche quello dei cani ne venne coinvolto. Ciò che all'inizio si venne modificando fu il mantello. Il vello delle pecore selvatiche è composto da un finissimo sottopelo e da un pelo di copertura (giarra) di grosso diametro, ispido e forte. Per migliaia di anni dopo la domesticazione le pecore conservarono ancora un mantello molto simile a quello dei loro progenitori selvatici, in cui cioè vi era un grande divario fra il diametro del sottopelo e quello della giarra. Anche il colore non era mutato essendo ancora marrone con il ventre chiaro. Questo era il tipo di pecora presente in Europa alla fine del neolitico. Non restano in questo periodo testimonianze di tessuti di lana, anche se la tessitura era conosciuta, dato che si sono conservati nei siti di questa epoca dei frammenti di tessuto di lino. Si sono trovati invece aghi per cucire le pelli essendo evidentemente questo l'utilizzo che si faceva del mantello delle pecore. E ciò si protrasse per lungo tempo se Cesare quando andò alla conquista della Gallia riferisce che i suoi abitanti erano vestiti di pelli. I resti però ritrovati nelle zone del Medio Oriente testimoniano come qui il vello della pecora si era andato evolvendo. Si riscontra cioè una progressiva convergenza fra i due tipi di pelo, mentre il sottopelo si ingrossa la giarra perde la sua rigidezza fino a trasformarsi in pelo lanoso. Questo tipo di mantello è tale da poter essere filato e tessuto e si ebbe così una veloce evoluzione verso manufatti di lana (tappeti, abiti).Testimonianze di velli lanosi si hanno già in Mesopotamia nel periodo Sumerico intorno al 2500 a.C. In documenti databili intorno al 2100 a.C. sono catalogati greggi di pecore in cui vengono distinte i capi da lana da quelli da carne. Vengono anche menzionati animali bianchi e neri oltre che bruni. Le pecore sotto il patronato reale erano bianche perché di maggior valore dato che erano poco comuni, mentre le pecore più comuni erano ancora quelle brune. Evidentemente la lana ha già raggiunto importanza come fibra tessile. È però a Babilonia (il cui nome pare significhi “Paese della lana”) che si trovano i primi documenti storici riguardanti le pecore e la lana. Nel codice Hammurabi datato intorno al 1800 a.C. si ha la prima testimonianza storica di una legislazione sulle pecore e sulla lana. Qui nacque la prima vera e propria industri laniera con una tecnologia tessile molto evoluta e ciò fece sì che Babilonia possa essere considerato il primo centro commerciale della lana della storia. Non è chiaro come venisse raccolta la lana, ma è molto probabile che il mantello delle pecore fosse ancora soggetto alla muta primaverile e che quindi la lana venisse raccolta a mano staccandola dall'animale durante questo periodo. Solo dopo il 1000 furono inventate le cesoie per la tosatura e fu proprio questo ritrovato tecnologico che stimolò una nuova spinta verso mutamenti biologici che portarono ad ottenere un vello i cui peli lanosi erano a crescita continua e cioè non subivano la muta. Un grande impulso alla selezione di pecore a lana bianca lo diedero i Fenici. Essi infatti dal secreto di una ghiandola di un particolare mollusco marino che vive nel Mediterraneo furono in grado di estrarre una sostanza rossa, la porpora, che era in grado di colorare la lana. Erano i Fenici, un popolo di origine semitica, i cananei della Bibbia, che si stanziarono in una stretta linea costiera del Mediterraneo orientale che corrisponde all'incirca all'odierno Libano. La loro principale attività fu quella del commercio e per estendere sempre più le loro possibilità di scambio iniziarono a spostarsi per via di mare. Questa loro attività di navigatori fu stimolata anche dalla necessità di recuperare la maggiore quantità possibile di molluschi per ottenere la porpora che era fonte di grande guadagno. Strabone riferisce che attorno alle città fenice si trovavano tali cumuli di residui dei molluschi usati per l'estrazione del colorante che l'aria era appestata da un puzzo insopportabile. Venivano usati vari tipi di molluschi da cui si potevano estrarre diversi colori. Oltre al porpora vero e propria si ottennero così il rosso scuro, il violetto e lo scarlatto. Più volte Omero accenna al fato che i vestiti dei Fenici erano multicolori in contrasto con i vestiti di lino bianco usati dagli Egizi. La tecnica della colorazione stimolò la produzione di un sempre maggior numero di pecore a lana bianca, dato che era l'unica a poter essere colorata. Fu però nella parte dell'Anatolia prospiciente al mare Ionio che, sfruttando le esperienze babilonesi, vennero selezionate delle pecore il cui vello oltre ad essere bianco era composto di lana molto fine, adatta alla tessitura di raffinati tessuti. Queste pecore erano destinate ad avere una lunga e gloriosa storia. Fu infatti da questo tipo di animali che alla fine del Medioevo furono selezionate le Merino in Spagna dove per secoli rappresentarono una grande fonte di ricchezza per questo paese che per un lunghissimo periodo ne impedì l'esportazione, mantenendone la privativa. Solo molto di recente esse furono trasferite in Australia dove ancora una volta furono e sono di grande valore commerciale ed economico. Ma ritorniamo alle origini. Il merito della diffusione delle pecore anatoliche è da attribuirsi ai Greci che nel 700 a.C. colonizzarono la costa ionica dell'Asia Minore. Ancora all'epoca della Roma imperiale le pecore di Mileto erano molto rinomate e Laodicea prosperò per il commercio di vesti romane. Nella città di Pergamo l'odierna Bergama, si dice sia stata inventata la lavorazione della pelle di pecora per creare la “pergamena”. Se si pensa che nella famosa Biblioteca ti questa città furono contenuti fino a 200 000 rotoli di pergamena ci si fa un'idea del numero di animali che dovevano essere presenti nella zona. I Greci poi fondarono colonie in Italia e vi introdussero questo tipo di pecore. Siracusa fu fondate da Corinto nel 73´ a.C. e poco dopo gli Spartani fondarono Taranto. Una statuetta bronzea proveniente da Siracusa e conservata al museo di Palermo rappresenta chiaramente una pecora a vello fine e ancora all'epoca romana le pecore tarantine venivano indicate come “greche” ed erano ritenute essere quelle che fornivano la lana migliore di tutto l'impero. La colonizzazione greca si estese sulla costa ionica e tirrenica mentre non se ne ha traccia su quella adriatica. La ragione di ciò deve essere attribuita alla presenza in Puglia di una popolazione che vi si era saldamente insediata: gli Iapigi. Erano questi una popolazione di origine indo-europea proveniente dall'Illiria che, attraversato il Canale di Otranto, era approdata sulle coste italiche. Trovandosi gli Illiri in stretto contatto con la civiltà greca, crearono nella loro nuova patria un centro culturale che si sovrappose a quello più arretrato della popolazione preesistente e che si sviluppò in modo autonomo. Sicuramente queste popolazioni illiriche facevano parte di quel flusso migratorio nomade che si spingeva da sud a nord e da est verso ovest. Essi però essendo rimasti vicino alla costa, più civile, conservarono più a lungo l'influsso dei centri di grande sviluppo culturale da cui avevano preso l'avvio. Essendo popoli nomadi a carattere pastorale, approdando in Puglia si portarono appresso le loro greggi che dovevano essere composte da animali che, come loro, avevano conservato le caratteristiche dei luoghi di provenienza. Dovevano cioè essere pecore dal vello fine e bianco. In epoca romana infatti le pecore apule erano ancora rinomate per la loro lana. È interessante notare che nei riferimenti degli scrittori romani si fa sempre una distinzione fra pecore apule e quelle tarentine da cui si può dedurre che, ancora in quell'epoca, gli animali dovevano essere distinguibili come appartenenti a due ceppi differenti. Come tutti i popoli nomadi accanto alle greggi essi avevano i loro cani e quindi anche essi vennero introdotti in Italia. Se ci siamo dedicati allo studio dell'evoluzione delle pecore è perché solo attraverso ad esso è possibile intuire anche l'evoluzione dei cani che ad esse sono legati. Se infatti la storia delle pecore, per il loro interesse economico, è sempre stata seguito ed ampiamente documentata, nessuno invece si è mai occupato dei cani. Su di essi si trovano solo sporadiche e incomplete testimonianze. Poiché d'altra parte è inevitabile che il tipo di cane doveva essere strettamente condizionato dal tipo di animale con il quale doveva convivere, l'unico mezzo a nostra disposizione per intuire l'evoluzione dell'uno è quello di seguire quella dell'altro. Ad esempio viene fatto di chiederci se l'evoluzione di un cane da pastore completamente bianco non sia stata stimolata dal momento in cui anche le pecore sono diventate bianche. La prima testimonianza di un cane bianco, guarda caso, la si trova proprio in Anatolia dove si fa la distinzione fra due tipi di cani: “Akbach” letteralmente “testa bianca” in accordo con il colore del mantello, in contrapposizione con un mastino chiamato “Karabach” che letteralmente significa “testa nera”.Ed è anche significativo che questo cane bianco lo si trovi proprio nelle zone che le pecore bianche hanno seguito nella loro espansione. Lo si trova in Anatolia, Grecia, nell'Italia peninsulare, nell'Illiria e lungo tale direttrice è salito a nord fino alle pianure danubiane. Quando Varrone consiglia di scegliere cani da pastore di buona razza, specificando che essa prende il nome dalla provenienza, afferma che quelle più pregiare sono: la Spartana, la salentina e l'Epirota. Ciò conferma che l'Illiria era un punto di espansione di tali cani. Questo tipo di cane già insediato al sud della Penisola era con ogni probabilità già presente anche in maremma e nella campagna romana prima ancora che Roma, nelle sue lotte espansionistiche, giungesse a contatto con le colonie greche della Magna Grecia o con l'Apulia. Diversa è però la direzione della sua provenienza. Bisogna infatti ricordare come poco dopo l'insediamento degli Iapigi in Puglia un altro popolo di origine illirica, affine al precedente, entrasse in Italia, secondo Erodoto, attraverso le Alpi Giulie. Era questo il popolo dei Veneti che qui giunti fondarono una civiltà che va sotto il nome di Atesina‚ dal centro da cui essa è partite cioè Este ai piedi dei Colli Euganei e non lontano dall'antico letto dell'Adige. Da qui essa si espanse un po' ovunque nel Veneto dove se ne trovano testimonianze a Padova, Verona, Belluno ed anche a Pieve di Cadore. Adria che allora si trovava sul mare fu il loro porto ed esso assunse una tale rinomanza da dare il nome al mare su cui si affacciava: l'Adriatico. L'espansione della civiltà atesina fu bloccata nella sua espansione verso l'interno della valle padana per l'esistenza qui di una popolazione sufficientemente evoluta che aveva sviluppato quella che va sotto il nome di civiltà “Villanoviana”. Caratteristica di questa civiltà è l'aver raggiunto un notevole sviluppo tecnologico nella lavorazione dei metalli. Dove ora sorge Bologna rimangono i resti di un notevole agglomerato di abitazioni e qui nacque una fiorente industri della lavorazione del bronzo. Per dimostrarne lo sviluppo raggiunto basti ricordare che negli scavi in un unico sito vennero trovati ben 14800 pezzi lavorati. È evidente la diffusione che i manufatti villanoviani dovevano avere sia verso il nord più arretrato, sia attraverso quell'arteria estendentesi dal Po all'Adriatico, che doveva diventare poi la Via Emilia. È evidente anche che interscambi culturali e commerciali dovettero esistere fra la civiltà Villanoviana e quella Atesina. La civiltà Villanoviana oltre ad essere un centro industriale era anche, data la fertilità della pianura padana un centro agricolo e pastorale. È quindi logico pensare che anche in questo campo vi fossero degli interscambi fra i due nuclei. Quando Columella nel suo “De Re Rustica” parla delle razze delle pecore dice: “È argomento di grande importanza non solo il tipo delle pecore, ma anche quello del loro colore. I nostri erano soliti considerare di gran valore le pecore Calabresi, le Apule, e quelle di Mileto e le migliori di tutte quelle Tarantine. Adesso però le pecore della Gallia sono da considerarsi di maggior valore specialmente quelle di Altino (vicino a Venezia) e quelle che hanno i loro ovili nelle ampie pianure di Parma e Mutina (Modena). Il colore bianco oltre ad essere il colore migliore è anche il più utile perché da questo si possono ottenere molti altri colori; ciò che non si può ottenere da nessun altro colore.” Aggiunge inoltre che invece a Pollenzia (Piacenza) e a Cordova (in Spagna) vengono prodotte pecore con vello nero o marrone scuro. Da questi riferimenti è evidente che nella Valle Padana erano approdate e si erano mantenute intatte nella loro qualità del mantello delle pecore di razza affine a quelle greche o apule. Poiché i Galli che occuparono in seguito tutta l'Italia settentrionale facevano parte di una corrente migratoria proveniente dal nord che, come vedremo, portavano seco tutto un altro tipo di pecore, è evidente che quelle bianche di razza pregiata dovevano essere preesistenti alla venuta dei Galli. L'ipotesi più probabile, visti i riferimenti di Columella ad Altino, è che esse arrivassero in Italia con i Veneti, come in Puglia erano arrivati con gli Iapigi. Fra queste due popolazioni, entrambe di provenienza illirica, si sono trovati infatti molti punti di contatto. Fra l'altro li accomunano anche le leggende che li accompagnano e che dimostrano inoltre la loro stretta relazione con il mondo greco. Per entrambi la leggenda racconta che i loro condottieri erano greci e che a somiglianza di Enea li guidarono ad una nuova patria. Diomede sarebbe il condottiero degli Iapigi e viene considerato il fondatore di molte città apule, mentre Antenore condottiero dei Veneti è considerato il fondatore di Padova dove ancora oggi se ne ammira la tomba. Entrambe le civiltà Atesina e Villanoviana vennero in seguito sopraffatte dall'avvento degli Etruschi, i quali, già stanziati in Etruria, valicarono gli Appennini e si riversarono nelle Pianura Padana. Qui si impadronirono del centro industriale villanoviano che battezzarono Felsina (che significa “luogo di vendita” cioè di mercato). Essa divenne subito il centro dell'Etruria padana che si andò progressivamente espandendo fino all'Adriatico dove vicino alle Valli di Comacchio fu fondata Spina su un preesistente emporio greco e che divenne lo scalo marittimo di Felsina. Poiché continui dovevano essere gli interscambi fra la colonia padana e la madrepatria toscana, pecore e cani bianchi dovettero valicare gli Appennini espandendosi nella Maremma e nella Campagna Romana. C'è infatti da tenere presente che a quell'epoca vi era un netto predominio etrusco sulla nascente Roma. D'altra parte i Latini erano un popolo pastorale la cui divinità principale era Pales la dea della pastorizia da cui prese il nome il colle Palatino. Tale tendenza agreste è così radicata nella stirpe latina che, per tutto il tempo della Repubblica, la classe senatoriale romana era composta da un'aristocrazia agricola e pastorale. Ancora nel II secolo d.C. Marco Porcio Catone nel suo “De Re Rustica” da consigli per come organizzare i possedimenti agricoli perché siano redditizi, dando valore primario all'allevamento delle pecore che considerava la fonte maggiore di ricchezza. Non dimentichiamo che la parola pecunia‚ (denaro) deriva da pecus‚ (pecora) e capitale‚ da caput‚ testa‚ cioè capi di bestiame. In parte la pastorizia romana si svolge all'interno delle “villa”, grandi fattorie la cui estensione è tale dal renderle del tutto autosufficienti. Nel sistema latifondistico esistente a quell'epoca molte zone coltivabili sono mantenute a pascolo e ciò conferma l'importanza che si da alle pecore. Viene anche in larga misura praticata la “transumanza” a tale proposito così ne parla Varrone nel suo “Rerum Rusticarum”: “Al contrario per gli animali che vanno nei pascoli e sono lontani dalle abitazioni bisogna provvedersi di reti per fare dei recinti nei luoghi deserti e di tutti gli altri utensili necessari. Infatti sono soliti pascolare su dei grandi spazi in luoghi molto differenti dato che molte miglia separano i pascoli estivi da quelli invernali. Io lo so bene, infatti avevo delle greggi che svernavano in Apulia e passavano l'estate sulle montagne di Reati (“Rieti” cioè i monti Reatini). Come il basto tiene in equilibri i due cesti così fanno le “Callae Publicae” (tratturi) con questi due pascoli.” Ancora a quest'epoca non si fa nessuna menzione dei pascoli abruzzesi che verranno usufruiti solo molto più tardi. Per concludere noi troviamo all'epoca dell'Impero Romano un quadro sufficientemente documentato della condizione della pastorizia e dei cani bianchi che ad essa erano legati. Innanzi tutto l'affermazione che esistevano cani di razza differente in base al differente luogo di origine sta a testimoniare come l'immissione in Italia sia avvenuta attraverso vie differenti. Inoltre il fatto che l'Illiria fosse considerata luogo di origine di cani di razza pregiata, ancora all'epoca imperiale, avvalora l'ipotesi della provenienza illirica tanto delle pecore come dei cani sia in Puglia che nel Veneto. Anche se di provenienza diversa le caratteristiche di tipo risultano però molto omogenee, dalle descrizioni che di essi ci vengono fatte. Dice Columella che il “cane guardiano di greggi” non deve essere né snello né veloce come un cane che deve inseguire la selvaggina, ma nemmeno pesante e massiccio come un cane da guardia delle abitazioni. Deve essere al contempo agile e svelto, ma anche robusto e vigoroso per essere in grado di inseguire e dare battaglia ai lupi. Il suo corpo deve essere asciutto e lungo in contrasto con il cane di casa che viene chiaramente definito come un molosso, con il corpo quadrato e massiccio e con “la testa tanto grande da apparire la parte maggiore del corpo”. Il colore preferito dai pastori è il bianco perché in tal modo lo si distingue più facilmente dagli animali selvatici. Varrone a sua volta dice che deve essere di taglia grande, testa grossa, orecchie pendenti, occhi scuri o grigi giallastri, labbra che coprono i denti, ma non troppo abbondanti, collo e spalle larghi ed arti lunghi e diritti preferibilmente più uniti che divaricati, piedi grossi e larghi con unghie dure e ricurve. I fianchi devono essere retratti, la schiena diritta e nel suo complesso deve avere aspetto leonino. Ciò che si ricava dalla descrizione di questi due autori che per altro sono molto in accordo è l'idea di un cane imponente, possente, ma non al punto di perdere agilità e velocità, in contrasto con le caratteristiche chiaramente molossoidi attribuite al cane adibito alla guardia delle fattorie con testa molto pesante e conformazione tozza e greve così da renderlo lento e poco mobile. Infatti dice Columella: “esso deve rimanere vicino alle abitazioni svolgendo il suo compito con il fiuto ed abbaiando agli sconosciuti che attaccherà con violenza se si avvicinano.” L'odierno maremmano si attaglia ancora oggi a queste descrizioni.
CARATTERISTICHE DEL CANE DA PASTORE GUARDIANO Il cane guardiano svolge il suo compito restando accanto agli armenti ed istintivamente viene messo in allarme da qualunque estraneo, uomo od animale, che si avvicini e tenti di penetrare entro quel cerchio ideale che egli ha creato attorno al gregge e che per lui rappresenta il suo territorio. L'istinto territoriale del lupo si è conservato in lui ed è stato accentuato dalla selezione operata dall'uomo. Per svolgere il suo compito, non ha bisogno di particolare addestramento. Ma l'intrusione dell'estraneo è la molla che mette in moto reazioni istintive. Bisogna però chiarire il particolare significato che il concetto di territorio assume per il cane da pastore. Per il lupo il "territorio” ha una rappresentazione topografica ben evidente per segnali visivi ed olfattivi che, una volta delimitato, rimane un'entità stabile. Per il cane da pastore invece è la presenza del gregge a stimolare il suo istinto territoriale» cioè il suo territorio è rappresentato dallo spazio occupato dal gregge, che va continuamente spostandosi con lo spostarsi degli animali. La pastorizia è stata e lo è in buona parte ancora oggi legata al nomadismo o alla transumanza. Il cane, accanto all'uomo, era soggetto a continui spostamenti così che adattò il suo istintivo senso territoriale su tutto quanto era abituato a vedere attorno a sé. In tal modo, dopo una millenaria consuetudine, la custodia del gregge gli divenne istintiva, in questo aiutato dalla selezione dell'uomo, che sicuramente eliminava i soggetti meno dotati per questo lavoro. Attraverso un meccanismo simile può essersi fissata nel cane da pastore la tendenza a girare attorno al gregge. Il Dickson, dopo 20 anni di osservazioni, ci dà un'accurata descrizione della vita e delle consuetudini dei Beduini del Kuwait e dell'Arabia Saudita. Egli riferisce, fra l'altro, che quando l'accampamento era montato per la notte gli animali venivano addossati alle tende per proteggerli dal freddo e per meglio difenderli dai predatori, mentre i cani dovevano girare tutto attorno all'accampamento, compito al quale venivano specificatamente addestrati. È d'altra parte logico pensare che un cane guardiano per sorvegliare il gregge dovesse necessariamente girare tutto intorno agli animali che pascolando si disperdevano su una vasta estensione. Poiché, come da molte fonti viene riferito, solo uno o due pastori che in alcuni luoghi potevano essere anche donne e bambini, avevano la custodia di greggi di 300 - 400 capi, erano i cani a dover svolgere il lavoro di sorveglianza. Questo non è ancora il raccogliere e radunare dei cani conduttori, ma può rendere ragione della tendenza caratteristica di tutti i cani da pastore di girare tutto attorno agli animali per delimitarne la dispersione, o meglio per delimitare in qualche modo e marcare il proprio territorio, quello spazio ideale che egli da solo deve crearsi per dar senso al suo compito di guardiano. Ciò darebbe anche una spiegazione più convincente di questo comportamento caratteristico dei cani da pastore, piuttosto che attribuirlo, come per lo più viene fatto, all'eredità dell'azione predatoria del lupo. Quando un branco di lupi assale una mandria di erbivori la loro azione corale e volta, non a raccogliere ed ammassare gli animali, ma piuttosto a disperderli insinuandosi fra loro per isolare una singola preda e meglio concentrarsi su di essa. Sono viceversa proprio gli animali di gruppo che, al primo segno di pericolo, tendono ad ammassarsi uno sull'altro, segno evidente che per gli animali senza grandi armi di difesa, il riunirsi in gruppi numerosi è un mezzo per aumentare le probabilità di sopravvivenza. Le mandrie di erbivori, gli stormi di uccelli, le colonie di nidificazione, i branchi di pesci sono esempi di come tale mezzo di difesa sia largamente sfruttato in natura. È poco plausibile quindi pensare che quella spiccata tendenza a raccogliere del cane da pastore venga interpretato come un comportamento predatori visto che il suo antenato lupo generalmente non lo utilizza. Il cane da pastore guardiano era ed è quindi impiegato come protezione del gregge e non gli si chiedono altri compiti. Anche se questo tipo di lavoro può sembrare "semplice» rispetto a quello più sofisticato e raffinato del cane conduttore, questi cani hanno però acquisito la dote fondamentale del cane pastore: quella cioè di essere istintivamente "adattati» al gregge. Essi infatti non solo, come abbiamo visto, sono in grado di riconoscere il gregge come un'entità, ma anche di riconoscere ogni singolo membro di esso come appartenente a tale entità. Se così non fosse che cosa impedirebbe a tali cani tanto aggressivi di considerare i singoli animali come preda. Solo millenni di convivenza ed una spietata selezione da parte dell'uomo hanno reso possibile una così profonda modificazione di quello che è l'istinto predominante del lupo: la predazione. Animali tanto aggressivi da aggredire qualsiasi essere in movimento nei pressi del gregge, hanno la capacità di frenare la loro aggressività di fronte proprio a quegli animali che dovrebbero essere la loro preda naturale. Il punto focale che fa di un cane, un pastore è proprio questo: l'aver cioè acquisito, in modo tale da renderla ereditaria, l'inibizione alla predazione di fronte agli animali di cui sono i custodi. Nel poema del poeta persiano Nizami del XVI secolo si racconta la storia di un pastore il quale impiccò il suo cane non tanto perché si era accoppiato con una lupa, ma piuttosto perché la aveva adescata durante la notte offrendole una grossa pecora. Questo esempio letterario è significativo perché ci dà un'idea di quale fosse la mentalità dei pastori e di quello che pretendessero dai loro cani. Senza andare tanto lontani ancora oggi sui monti dell'Abruzzo le greggi sono lasciate a pascolare custodite solo dai cani da pastore, senza tema che qualche capo venga da loro aggredito. Anche negli Stati Uniti sono stati importati dall'Italia dei Pastori Maremmano-Abruzzesi per la lotta contro i coyote che provocano grosse perdite negli armenti. Tali cani vengono lasciati per lunghi periodi soli con le pecore e si è potuto constatare come la perdita di capi sia drasticamente diminuita. Ciò sta a dimostrare come anche lasciati incustoditi questi cani rispettassero le pecore, riservando la loro aggressività solo verso gli animali selvatici che le minacciavano. Il girare attorno e l'inibizione all'aggressione fanno parte quindi del corredo comportamentale del cane da pastore e come tale viene trasmesso attraverso le generazioni. Molto diverso è il ruolo del cane conduttore: il suo compito è quello di collaborare con l'uomo nella gestione del gregge. È molto difficile stabilire quando e perché l'uomo sentì la necessità di sfruttare le tante doti che il cane possiede per trarne maggior aiuto nel suo lavoro. Nei luoghi dove esisteva e dove ancora oggi esiste il pericolo per pastori e greggi di essere assaliti da animali predatori, la necessità della sicurezza ebbe e conserva la priorità. Qui la presenza del grosso cane feroce ed aggressivo è di fondamentale importanza. D'altra parte bisogna anche considerare che dove esistono le condizioni per la presenza degli animali selvatici, anche le condizioni per il pascolo sono tali per cui le greggi possono muoversi liberamente su grandi spazzi senza alcuna limitazione. In tali ambienti il lavoro del pastore si limita ad evitare la dispersione degli animali, cosa che essi ottengono usando alcune tecniche particolari, che sono antiche come la pastorizia stessa. La fionda di biblica memoria o il lancio di pietre davanti agli animali che tendono ad allontanarsi troppo, il suono di semplici strumenti a fiato, i campanacci messi al collo di un becco o di un montone che il gregge riconosce come guida e segue docilmente, sono tutti espedienti di universale uso in tutti i tempi ed in tutti i luoghi da quando esiste la pastorizia. Nelle zone però in cui si ebbe un progressivo sviluppo dell'agricoltura, anche la pastorizia dovette adattarsi alle nuove condizioni. Il disboscamento ed il dissodamento di aree, un tempo adibite a pascolo, portarono, da un lato alla progressiva limitazione dell'habitat degli animali selvatici e quindi alla loro diminuzione e comunque al loro confinamento in zone sempre più ristrette, dall'altro ad una sempre maggiore riduzione di aree adibite a pascolo libero. Questi due fattori congiunti determinarono profondi mutamenti sulla pastorizia, costringendola a modificare i sui antichi usi tradizionali. Con questo periodo di trasformazione coincide la progressiva sostituzione del grosso e feroce cane guardiano, nelle zone dove, per le mutate condizioni, la sua presenza non era più indispensabile, con il più duttile e mobile cane conduttore. Questo processo di trasformazione fu lento, progressivo ed all'inizio sicuramente non mirato. Furono le circostanze stesse che spinsero gradatamente verso un più ampio modo di utilizzo del cane nella pastorizia.
I TEMPI MODERNI Mentre nell'Italia del nord avvenivano questi cambiamenti profondi nel mondo pastorale, tanto da determinare un'evoluzione nel comportamento dei cani che ad esso erano legati (vedi Pastore Bergamasco), nell'Italia peninsulare ritroviamo a distanza di secoli lo stesso tipo di pastorizia che si praticava all'epoca romana. Alla caduta dell'Impero seguì un periodo di profondo decadimento. Le guerre gotiche avevano così profondamente depauperato queste regioni da determinare una drastica diminuzione di popolazione. Le ripetute invasioni che si succedettero non fecero che peggiorarne le condizioni. L'assetto politico si era venuto profondamente modificando. Queste regioni, un tempo senza confini che le dividessero, furono frazionate in vari stati per lo più in antagonismo fra loro. Lo Stato Pontificio che andava dall'Adriatico al Tirreno venne a costituire una barriera così che Italia centrale e meridionale furono separate e seguirono sviluppi indipendenti. Che cosa avvenisse della pastorizia durante questo periodo non ci è dato sapere dato che si hanno scarsissimi dati contraddittori. Per l'Italia meridionale fu solo dopo l'avvento dei Normanni prima e degli Svevi poi che si ebbe l'inizio di un nuovo sviluppo ed è da allora che si riprende ad avere notizie documentate anche sulla pastorizia. È nel 1115 che la costituzione di Guglielmo il Malo stabilisce norme severe e larghi privilegi di pascolo a favore dei pastori dell'Appennino. A cominciare da quest'epoca vediamo la pastorizia prendere sempre maggiore sviluppo. Ma fu con gli Svevi ed in particolare con Federico II che la pastorizia pugliese riprese nuovo vigore dopo il grande periodo di decadimento. Federico II che della Puglia fece la sua dimora di elezione diede nuovo slancio alla pastorizia. Il tavoliere divenne Regio Demanio e fu sottoposto ad una speciale amministrazione che fu detta « la Mena delle pecore in Puglia". Vennero organizzati e regolamentati i tratturi verso gli Appennini Abruzzesi e tutto fu stabilito con tanta efficacia che con poche modifiche tutto rimase invariato fino al secolo scorso quando i privilegi demaniali furono aboliti dalle leggi emanate dal Parlamento Italiano nel 1868. Se da un lato da tutto ciò ne venne un grande vantaggio per la pastorizia, fu però di grande danno per lo sviluppo agricolo. Poiché l'utile che lo stato ricavava dalla pastorizia era ingente, tutti i terreni del tavoliere dovevano essere mantenuti a pascolo per garantire il foraggio per un sempre maggior numero di pecore. Sotto il controllo degli ufficiali della Mena fu inibita severissimamente ogni dissodazione di terreni. In tal modo l'agricoltura fu bandita dalle zone dove erano presenti le pecore. Non si crearono quindi qui quelle condizioni che si erano create nel nord dove pastorizia ed agricoltura dovettero imparare a convivere. Di conseguenza non si determinò la spinta verso la selezione di un cane da pastore conduttore. Così il nostro MaremmanoAbruzzese continuò ad essere quello che era sempre stato: un cane guardiano. Praticamente nulla era mutato nel suo modo di vivere e lavorare, dai lontani tempi delle sue origini. E da allora esso poco è mutato dato che niente lo ha spinto a mutare. Non ci deve quindi stupire se leggendo oggi le pagine di Varrone o di Columella ci ritroviamo raffigurato un cane che ancora oggi possiamo vedere accanto a noi. Non molto diversa da quella pugliese fu la vita pastorale toscana e laziale. Anche qui, anche se per ragioni storiche diverse, la maremma e la campagna romana rimasero incolte fino ai tempi recentissimi della bonifica. Perciò anche qui la pastorizia non dovette convivere con l'agricoltura ed anche qui il cane bianco continuò a svolgere il suo lavoro di sempre. Poiché anche se con itinerari differenti, passando cioè per l'Appennino umbro e marchigiano anche queste greggi transumavano in Abruzzo, sicuramente sempre rinnovati furono gli interscambi con i cani apuli. La costanza di tipo di questi cani deve però ricercarsi molto più in profondità. Se noi prendiamo in considerazione le altre razze affini alla nostra che si trovano nell'Europa dell'est possiamo constatare come essi siano simili fra loro. Mettendo a confronto Maremmani-Abruzzesi, Kuvasz, Chuvach, Owczarek Podhalanski e Tatra viene in tutti riscontrata una grande omogeneità nelle caratteristiche fondamentali di tipo. A differenza di quanto avviene per l'altro gruppo di razze affini che abbiamo messo in relazione con il Bergamasco dove si possono riscontrare notevoli varianti, questi cani bianchi, ad uno sguardo superficiale, ci appaiono difficilmente distinguibili gli uni dagli altri. Il fatto che così poco siano mutati nel tempo e nello spazio può solo significare che le loro caratteristiche di tipo sono così saldamente fissate che vengono spontaneamente conservate. È quindi sterile e di poco rilievo l'attuale disputa sulla differenza fra cani maremmani e cani abruzzesi e più dettata da fattori di altra natura che da vere ragioni cinotecniche. Il pericolo è che per puntigliose ripicche si sottoponga questo cane ad una selezione che ne esasperi alcune caratteristiche fino a farlo allontanare da quel tipo al quale, e lo ha dimostrato, rimane spontaneamente fedele.
pastori maremmano abruzzesi e pastori scozzesi shetland
Allevamento di Selvaspina - loc. Casette, 26 - I 37023 Grezzana - Verona / tel-fax 045 908606